20. Giardino Giusti
Via Giardino Giusti 2
Giardino Giusti. In ogni giardino è racchiusa la storia di molte persone: a volte quelle storie sono anche in grado di comporre un racconto. Un racconto che può riferirsi a esperienze di vita di cui, il giardino stesso, è la continua rinnovata ragione. O un racconto di episodi relativi all’architettura, o alla botanica, alla storia del luogo. Ma occorre saper leggere quel che un giardino è in grado di raccontare: quali le memorie che custodisce.
Il giardino Giusti, che si stende sulla riva sinistra dell’Adige come un meraviglioso libro illustrato, è accudito dalla stessa famiglia da 600 anni. Tutto cominciò con quel tale Provolo Giusti, del fu Giusto, che di mestiere faceva lo “scapizator pannorum” (grosso modo il venditore di tessuti al dettaglio), il quale partendo dalla Toscana arrivò a Verona nel 1405. La città era allora il centro laniero più produttivo del Veneto. Per aver modo di tingere e stendere i suoi panni comprò nella contrada di Santa Maria in Organo alcuni terreni, in leggero declivio, coltivati a vigne e orto, limitati in parte dalle mura della cinta comunale.
Il terreno, che dal piano sale verso il colle di San Pietro, e sul quale si vedrà il disegno del futuro giardino, rimarrà per lungo tempo un luogo per lo più votato all’utile, pur essendoci già alcuni dei cipressi che poi formeranno il famoso viale (costituito da una doppia fila di 33 cipressi per parte) ammirato da Goethe. I grandi cambiamenti che portarono alla attuale immagine del giardino iniziano nella seconda metà del ‘500 con Agostino Giusti, persona colta, attiva, grande collezionista di lapidi romane e marmi antichi ancora visibili.
A raccontarci quanto sia ancora vivo un legame con la Toscana, lo mostra un primo schema del giardino che ricorda più quello del giardino di Boboli, a Firenze, che quello ispirato, a quel tempo, da Palladio. Il giardino si svolge in parte in piano, dove lo spazio è scandito da aiole variamente disegnate e limitate da siepi fiorite, per poi salire verso la collina alberata e opportunamente modellata. Statue e fontane aggiungono frescura, ritmo e sintesi mitologiche: le virtù, le arti, il piacere, l’abbondanza sono tutte accolte in quel giardino. E poi la cappella scavata nel tufo, e la grotta rinfrescata da giochi d’acqua e rivestita con coralli, conchiglie, mosaici, specchi e pitture tali da creare illusorie prospettive. E qui ci fa compagnia il commento che la scrittrice Vivian Russel fece a proposito del libro “ltalian Gardens” di Edith Wharton. “Lei ebbe subito ben chiaro che i giardini italiani avevano poco a che fare con il giardinaggio, mentre avevano tutto a che fare con l’opera d’arte”. Da notare: “poco” non niente.
Una descrizione del giardino del 1620 si può avere da Francesco Poma. Il testo si articola in un dialogo tra l’autore e un visitatore straniero che, sul far della sera, scende in giardino. Ne descrive le statue e addita il cipresso femmina che quasi teme di essere abbandonata dai vicini cipressi maschi e tende le braccia verso di loro. Descrive i prati fioriti come tappeti di Persia e aiole circondate di rose. Assicura fioriture adatte a ogni stagione, gelsomini, aranci, limoni, cedri “di fiori carichi in un tempo stesso e di frutti parte verdi e parte dorati”. Poi scende verso il luogo delle ortaglie dove vi sono diverse varietà di uva, fichi e poi “l’odorata Salvia, la casta Menta, l’utile Ramerino, e la Cinara dagli antichi ò non gustata ò negletta, ed ora fatta delizie di tutte le mense”. E poi il tempo passa e ci sono guerre e malattie, mode che cambiano, piante sconosciute che lì mettono radici. Ma ancora oggi se si guarda a sinistra si vede lo stesso muro mirato da Provolo grazie a chi, con molto lavoro, ha fatto in modo che sia così.
Dopo il fortunale del 2020, molti cipressi sono stati ripiantati recentemente.